Elisabetta Donini[1] ha raccontato la nascita e lo sviluppo delle Donne in Nero in una relazione tenuta a Padova il 20 settembre 2019 in occasione del Ventennale delle DIN padovane.

CHI SONO LE DONNE IN NERO?

Sono una rete internazionale di donne femministe e pacifiste nata a Gerusalemme l’8 gennaio 1988. Ce lo racconta Gila Swirsky, una delle prime aderenti al movimento e autrice del libro “Standing for peace: A history of women in Black in Israel“. Sullo sfondo c’è l’inizio della I intifada, la “Rivolta delle pietre”, cominciata a Gaza l’8 dicembre 1987, quando un automezzo militare israeliano travolse e uccise quattro palestinesi del campo profughi di Jabalya. Nel clima già rovente dell’Occupazione che durava dal 1967 (o – per meglio dire – dal 1948), l’insurrezione si estese subito in tutti i Territori palestinesi. In Israele, nel mese di dicembre vennero fatte varie manifestazioni, a Gerusalemme e non solo, in cui, insieme ad alcuni uomini cominciarono a comparire donne vestite di nero: la prima volta furono circa otto e portavano cartelli neri, ritagliati in forma di mano, il simbolo stradale dello stop [ma anche la mano di Fatima, antico simbolo sia ebraico che musulmano], recanti appunto la scritta “Dai LaKibush” (in inglese: “Stop the Occupation”; in breve si aggiunse la versione araba). Secondo un commento di Gila Svirsky, quel modo di presentarsi “risultava drammatico, come un coro dell’antica Grecia”; esprimeva il lutto per quanti erano stati uccisi o feriti dalla violenza e fu efficace per attrarre altre donne. Ecco alcuni passi del I capitolo:

«L’8 gennaio [1988: a un mese esatto dall’inizio della rivolta] le donne scelsero di dimostrare nel cuore di Gerusalemme, all’incrocio di grande traffico tra Jaffa Road e Ben Yehuda Street. Si presentarono circa quindici donne, tra di esse mia figlia Mieka Brand di 15 anni, che lo aveva saputo dalla sua amica Alva, figlia di Raya. Raya non solo portava un abito nero, ma reggeva un grande cartello su cui aveva fatto un disegno fortemente provocatorio – un soldato israeliano che picchiava con violenza un palestinese. Non era un’immagine adatta a suscitare amicizia, considerato che in Israele la maggior parte delle persone guardava ai nostri soldati come alle vittime della violenza, non a chi la perpetrava. Perciò la dimostrazione si fece notare, per dirla con un eufemismo.»

COME FURONO ACCOLTE?

La collocazione scelta esponeva al disprezzo le donne che avevano “preso il lutto” per il nemico, anziché sostenere i “nostri ragazzi in uniforme”; era una rabbia così violenta che Hagar Roublev – un’altra delle madri fondatrici – ebbe a raccontare: “Tornai a casa coperta di sputi”. Però era stata trovata una modalità – donne in silenzio, vestite di nero – che catturava l’attenzione, anche se si era scelto un luogo troppo esposto agli attacchi. Il gruppo decise di rendere permanente la manifestazione (ogni venerdì, per un’ora), ma di spostarla a Paris Square, «dove sarebbero state un po’ più lontane dagli astanti, e tuttavia ancora ben visibili.»

La collocazione scelta esponeva al disprezzo le donne che avevano “preso il lutto” per il nemico, anziché sostenere i “nostri ragazzi in uniforme”; era una rabbia così violenta che Hagar Roublev – un’altra delle madri fondatrici – ebbe a raccontare: “Tornai a casa coperta di sputi”. Però era stata trovata una modalità – donne in silenzio, vestite di nero – che catturava l’attenzione, anche se si era scelto un luogo troppo esposto agli attacchi. Il gruppo decise di rendere permanente la manifestazione (ogni venerdì, per un’ora), ma di spostarla a Paris Square, «dove sarebbero state un po’ più lontane dagli astanti, e tuttavia ancora ben visibili.»

Gila riporta poi i nomi delle quindici fondatrici che  nel corso degli anni sfidarono la lealtà alla “propria parte” che il contesto nazionale e/o religioso pretendeva di imporre. Diverse di quelle donne purtroppo non ci sono più, ma resta tuttora caro e profondo il loro ricordo.

La decisione di manifestare tutte le settimane vestite di nero e in silenzio si estese all’intera Israele, fino a coinvolgere una trentina di luoghi. L’intenzione in cui tutte si riconoscevano era quella sì di esprimere solidarietà con la popolazione palestinese per le sofferenze che le venivano inflitte, ma anche di denunciare lo stravolgimento che il ricorso a tanta violenza apportava all’identità, alla storia e alla società ebraica, rispetto ai principi cui quelle donne aderivano. Perciò si parlò spesso di “un duplice lutto”.

La brutalità degli attacchi contro le Donne in Nero dipendeva dal fatto che esse erano percepite dalla maggioranza come traditrici: la società israeliana si fondava (e tuttora si fonda) sul richiamo alla Shoah come fattore unificante e sull’esaltazione dell’esercito come pilastro per garantire il futuro di tutto il popolo; scostarsi da quei cardini significava appunto rendersi colpevoli di tradimento. Per di più, trattandosi di donne, l’esecrazione si caricava di pesanti valenze sessuali; come riportano molti resoconti di quel periodo, spesso ricorrevano insulti quali “cagne”, “sgualdrine”, “puttane di Arafat” e anche peggio.

CON QUALE SPIRITO E PER QUALE SCOPO NACQUERO LE DONNE IN NERO?

Con quale spirito e per quale scopo nacquero le Donne in Nero? Uno degli aspetti che mi paiono di maggior rilievo è l’essersi caratterizzate per l’assunzione personale di responsabilità che rendeva ciascuna di loro protagonista della propria scelta individuale, pur se soltanto la relazione con le altre dava la forza necessaria per dissociarsi dall’adesione diffusa alla prospettiva armata e dall’imposizione a immedesimarsi con la volontà di dominio del governo e dell’esercito. Nel 1991 Yvonne Deutsch[2], un’altra delle fondatrici del gruppo, espresse con molta chiarezza questi concetti:

«La crescita di consapevolezza politica e femminista e il cambiamento degli atteggiamenti sono legati fra loro in un faticoso processo in cui è necessario mettere in discussione problemi esistenziali come l’autodeterminazione, l’appartenenza, l’alienazione, l’essere donna, l’essere uomo, l’atteggiamento verso l’esercito, la guerra, la pace, la giustizia, la violenza e il nazionalismo. Questi problemi che riguardano convinzioni, valori e identità sono stati approfonditi in vario grado a seconda della sicurezza personale e del senso di identità e a seconda della nostra età e della nostra classe sociale.

L’attività politica, in tempo di crisi di identità e di valori, rappresenta l’unione fra il politico e il personale. Noi suscitiamo nella pubblica coscienza problemi di significato emotivo e politico e questo è coerente con la nostra convinzione che la frattura fra il personale e il politico abbia un effetto distruttivo e consenta l’esistenza del male dentro di noi. Oltre ai problemi del ruolo delle donne nella costruzione della pace e dell’influsso dell’occupazione sulla vita delle donne, abbiamo anche posto il problema del razzismo, del pregiudizio e della paura quali ostacoli sulla via della pace.

In questo labirinto e in questa confusione ci sono fra noi alcune che intendono creare una cultura politica delle donne – una cultura di pace[3].»

QUALI FURONO I PRIMI PROBLEMI CHE INCONTRARONO?

Proprio rifacendosi a riflessioni simili a quelle di Yvonne Deutsch che ho riportato sopra, Cynthia Cockburn, donna in nero inglese, femminista e attivista per la pace sin dai tempi di Greenham Common, che si era proposta di scrivere la storia del movimento dalle origini ai nostri giorni , ma morì prima di verla terminata,  rilevava che non soltanto si trattava di un “processo faticoso”, ma che le donne del movimento vivevano rispetto ad esso profonde contraddizioni, nello sforzo di districarsi dal labirinto confuso della loro società.

  «Si dava per certo che essere bene armati era essenziale per la sopravvivenza di Israele, considerata l’ostilità delle nazioni arabe che la circondavano. Le donne quindi non invocavano lo scioglimento delle Forze di Difesa Israeliane. In quanto pacifiste non potevano essere entusiaste del modo in cui la militarizzazione plasmava il carattere e il comportamento degli uomini ebrei di Israele. Tuttavia questo entrava in conflitto con la necessità di valorizzare la forza militare maschile, in antitesi all’immagine odiosa dell’ebreo della Diaspora, debole e perseguitato. Nel contesto dell’Occupazione, tale ambivalenza oscurava nelle donne la capacità di percepire i loro mariti e figli come oppressori.»

QUALI RIPERCUSSIONI EBBERO LE DONNE IN NERO PER LE RELAZIONI TRA LE EBREE E LE ARABE?

In primo luogo – osservava Cynthia – l’iniziativa era volta a porre fine all’Occupazione da parte dello Stato di Israele (a maggioranza ebraica) dei territori della Cisgiordania e di Gaza (con una popolazione prevalentemente arabo-palestinese). Perciò le ebree israeliane per raggiungere le arabe-palestinesi dovettero attraversare il confine della Linea Verde, così come a Tel Aviv, Haifa, Nazareth donne della minoranza arabo-palestinese in Israele presero parte alle manifestazioni fianco a fianco con donne ebree. Il significato stesso della relazione cambiò e apparvero orizzonti più equilibrati: da entrambe le parti ci furono donne che per la prima volta nella loro vita ebbero contatti personali con “l’altra”, in uno scambio di pensieri, esperienze, emozioni che aiutò ad andare oltre gli stereotipi: per esempio, per cercare di capire che cosa stesse provando la tua vicina se sentivi che oltre ai soliti insulti sessisti a lei ne venivano rivolti anche altri prettamente razzisti. A questo proposito Gila commenta che ne scaturì un impulso a radicalizzarsi, andando più a fondo nell’impasto delle disparità di genere, etnia, provenienza, religione, classe che stratificava le loro esistenze.

DOVE SI DIFFUSE IL MOVIMENTO DELLE DONNE IN NERO?

Secondo il racconto di Cynthia Cockburn, l’idea e la pratica delle Donne in Nero attraversò l’Atlantico e giunse negli Stati Uniti con sorprendente velocità, grazie alla presenza in quel paese di ebree attiviste per la pace, anche loro desiderose di prendere iniziative più efficaci dopo lo scoppio dell’Intifada. La prima manifestazione si tenne in Minnesota già a febbraio del 1988, ma nel giro di sei mesi furono numerosi i gruppi che adottarono questa modalità nuova e di forte impatto e decisero di dimostrare una volta alla settimana in città grandi e piccole.

La scritta ricorrente era “Basta con l’Occupazione” e in genere partecipavano donne della diaspora ebraica e di quella palestinese, insieme con donne statunitensi. Veniva posta molta attenzione a utilizzare la logica dell’ “e/e” e dell’ “entrambe”, per mettere in evidenza con la stessa forza la persecuzione storica del popolo ebraico e l’oppressione di quello palestinese, esercitata oggi da Israele. Da Baltimora alla San Francisco Bay Area, l’iniziativa si estese, diffondendo quello che in altre circostanze – le guerre balcaniche – venne poi chiamato il “contagio simbolico”.

COME AVVENNE L’INCONTRO TRA NUMEROSE PACIFISTE ITALIANE E LE DONNE IN NERO DI ISRAELE?

Nel 1987 vari gruppi del movimento delle donne – in particolare di Torino, Bologna e dell’Associazione per la Pace – delinearono il progetto di un “campo di pace” da realizzare tra donne palestinesi, israeliane, italiane. Dopo poco più di un anno di preparazione esso venne attuato nell’agosto del 1988 e dall’Italia parteciparono sessantanove donne[4].

Già durante la fase preliminare vennero compiuti alcuni viaggi per incontrare donne di entrambe le parti e concordare con loro come lavorare insieme. Nella primavera del 1988 le due torinesi incaricate di quel compito vennero a sapere dell’attività delle Donne in Nero, anzi un venerdì vi parteciparono e ne furono talmente colpite da suggerire che anche qui ragionassimo sul “messaggio” che esse intendevano trasmettere, per riprenderne il significato. Quando poi, nel mese di agosto, si tenne il “campo di pace” il contatto e la condivisione si allargarono e diventarono più profondi, al punto che poco dopo il ritorno venne organizzata a Roma la prima manifestazione di sole donne, vestite di nero e in silenzio, davanti all’Altare della Patria, per esprimere il rifiuto del nazionalismo basato sull’orgoglio di guerra.

In seguito l’attività dei gruppi che avevano realizzato l’iniziativa dell’agosto 1988 proseguì per alcuni anni, con nomi diversi in diverse città, finché la I Guerra del Golfo – a gennaio del 1991 – indusse in circa ottanta luoghi a definirci e a manifestare come Donne in Nero, perché ora anche per noi diventava cruciale dissociarci dalla scelta del Governo italiano di inviare truppe per partecipare direttamente alle azioni belliche. Poco più avanti nel corso di quello stesso anno scoppiarono le guerre balcaniche; attraverso contatti tra varie realtà – in particolare una Carovana per la pace che dall’Italia si recò in Jugoslavia – un gruppo femminista e pacifista di Belgrado venne a conoscere il modo e il senso delle manifestazioni in abiti neri e in silenzio iniziate pochi anni prima a Gerusalemme e decise di farlo proprio. Così il 9 ottobre 1991 nacquero le Donne in Nero di Belgrado, con una manifestazione da cui ebbe inizio una storia di estrema radicalità e coraggio, che è riuscita a proseguire sino ad ora, senza mai smettere di denunciare e contrastare il militarismo, il nazionalismo, il maschilismo, il fascismo da cui era e resta pervasa quella società.

QUALI EFFETTI PRODUSSE L’ESPERIENZA DELLE DONNE IN NERO?

Nel 1996 Gila Svirsky concludendo il suo libro, Standing for Peace, in primo luogo sottolineò l’importanza della trasformazione personale vissuta da molte che prima di allora non erano mai state coinvolte politicamente e che maturarono nuove priorità, abbandonando il conformismo delle posizioni ufficiali. Partecipare alle manifestazioni portò a radicalizzare e rafforzare la propria consapevolezza: reggere per settimane – o addirittura per anni – mantenendo il silenzio della nonviolenza in mezzo a grida rabbiose e offensive, aumentò la fiducia in sé e la determinazione a continuare. Ne derivò anche un maggiore apprezzamento dei valori e degli atteggiamenti del femminismo: non ogni partecipante si definiva come “femminista”, ma la condivisione dei processi decisionali e il sostegno reciproco senza gerarchie avvicinò tutte alla prospettiva femminista basata sulle relazioni.

Tuttavia, a questa storia di radicali cambiamenti soggettivi non hanno corrisposto cambiamenti altrettanto radicali sul piano concreto dell’affermazione dei diritti individuali e collettivi della popolazione palestinese. Anzi, se nel 1996 Gila prendeva atto con dolore che la vicenda non stava approdando ad alcun “happy ending”, da allora la situazione è sempre peggiorata e la possibilità che venga addirittura cancellata l’esistenza autonoma del popolo palestinese – come territorio e come denominazione – si è continuamente inasprita, fino alle minacce ancora più dure di questi giorni.

DOBBIAMO DUNQUE CONCLUDERE CHE L’IMPEGNO DELLE DONNE IN NERO E’ STATO INUTILE?

Non lo penso, prima di tutto perché i processi soggettivi di presa di coscienza e di trasformazione del proprio modo di pensare, riuscendo a sottrarsi alla pressione dei valori dominanti, sono stati – e tuttora sono – di fondamentale importanza per il modo in cui ciascuna donna si vive e si colloca nella società. In secondo luogo, la potenza del “messaggio” lanciato da Gerusalemme è stata dimostrata dalla forza di attrazione per cui in un gran numero di altri luoghi esso è stato ripreso, ma al tempo stesso è stato riadattato in base alle specificità locali.

Richiamo in particolare il caso delle Donne in Nero di Belgrado, cui avevo accennato sopra. Ad esse siamo tutte debitrici della particolare incisività con cui hanno accoppiato pratiche innovative e approfondimenti teorici a largo raggio. Uno dei loro punti di forza consiste nella tensione a stabilire reti di collaborazione e solidarietà non solo al proprio interno, ma tanto con attiviste aventi storie politiche ed esistenziali diverse quanto con le donne di cui era più difficile conquistare la fiducia: bosniache, soprattutto, che avevano visto e subito gli orrori perpetrati dall’esercito serbo e che non potevano – almeno all’inizio – non guardare a loro se non come a nemiche. Eppure con un lungo lavoro di incontri personali e di costruzione di relazioni venne messo a punto un percorso partecipativo, che portò nel 2015 a realizzare a Sarajevo il “Tribunale delle donne. Un approccio femminista alla giustizia”, ad opera di un insieme di organizzazioni, coordinate appunto dalle Donne in Nero di Belgrado.

Non mi soffermo su come quell’iniziativa si è svolta, è proseguita, si riallaccia tuttora all’ampio arco di attività in cui le Donne in Nero di Belgrado sono impegnate. Altre tra le presenti ne possono parlare in modo ben più approfondito, poiché hanno partecipato ai momenti principali del percorso e mantengono da anni forti relazioni con donne e gruppi dei Balcani.

Desidero piuttosto terminare rifacendomi alle riflessioni di Gila Svirsky circa la distanza che può esistere tra radicalità dei cambiamenti soggettivi e mancanza di efficacia concreta. A me pare convincente una considerazione che si può trarre dalle numerose e profonde elaborazioni teoriche delle Donne in Nero di Belgrado: rendendo esplicito il significato della loro scelta antinazionalista e antimilitarista, rispetto a un contesto segnato dal patriarcato, esse hanno tracciato un orizzonte alternativo di donne autonome e autodeterminate, che solo nutrendosi di pensieri e emozioni differenti possono agire diversamente. L’esortazione a “smilitarizzare le menti” ne è a mio parere una sintesi efficace: come scriveva già nel 1992 Yvonne Deutsch, per un cambiamento decisivo dello stato delle cose presenti, occorre che si affermi «una cultura politica delle donne – una cultura di pace».

DONNE IN NERO A PADOVA

di Marianita De Ambrogio[5], 20/09/2019

Sono passati vent’anni da quando, nell’aprile del ’99, ci siamo trovate un po’ di donne con storie diverse alla Tenda della Pace che era stata eretta in Piazza della Frutta per protestare contro quanto stava accadendo in Kosovo, ancora una guerra e – per di più – una guerra in cui il nostro governo aveva deciso di svolgere un ruolo attivo anche se malamente mascherato da una nuova paradossale espressione: “guerra umanitaria”.

Reggevamo uno striscione con scritto “Donne per la pace”. Erano giorni difficili: quando con i nostri cartelli chiedevamo di porre fine ai bombardamenti venivamo contestate (a volte anche allontanate) da parte di quella sinistra che era al governo e che ci accusava di sostenere il governo di Milosevic. Ma erano anche giorni di grande mobilitazione di un movimento pacifista che alzava la voce contro la guerra rivendicando l’articolo 11 della Costituzione calpestato dalle scelte belliche del nostro governo. 

Da allora abbiamo continuato a prendere posizione contro ogni tentativo di affrontare i conflitti con l’uso della forza, e le guerre non sono certo mancate, anzi si sono moltiplicate mentre le industrie belliche hanno continuato a prosperare e i vari governi hanno sempre più aumentato le spese militari e l’impegno nelle varie “missioni di pace”, altra espressione coniata per confondere le idee.

Ci ha guidato in questi anni la convinzione che davanti alla violenza della guerra, davanti ad ogni forma di violenza, non si deve tacere, ma è necessario – indipendentemente dall’essere tante o poche – e noi non siamo mai state tante – continuare ad assumersi la responsabilità di denunciare quanto accade anche se le nostre denunce possono suonare sgradite come spesso lo sono state e lo sono.

Ci ha guidato inoltre la convinzione della necessità di sostenere e dar voce a quanti e soprattutto a quante si impegnano per una pace giusta nei Balcani come in Palestina e Israele, in Afghanistan come in Siria, in Colombia come in tanti altri paesi dilaniati da guerre e dittature.

Ci ha aiutato a resistere la consapevolezza di non essere sole, di far parte di una rete internazionale e di avere incontrato nel nostro cammino altre compagne e compagni che condividono i nostri desideri, i nostri sogni, ma anche le nostre difficoltà e le nostre inquietudini.

E le inquietudini non mancano perché viviamo in un mondo dove chi governa non sa e non vuole affrontare i reali pericoli che minacciano la nostra stessa sopravvivenza, non sa prendersene cura. E oggi più che mai ci appare necessaria un’etica della cura intesa come capacità di ciascuno/a di prenderci cura di noi stessi, degli altri e del mondo in cui viviamo. Assistiamo perciò con gioia alle proteste dei giovani per la difesa del pianeta minacciato dai cambiamenti climatici. Ma ci chiediamo anche perché l’opposizione alla guerra e al militarismo non riesca a coinvolgere con la stessa forza; ci preoccupa questa difficoltà a capire che guerre, migrazioni, disastri ambientali sono realtà tra loro connesse, non vogliamo però perdere la speranza che la consapevolezza di questa interdipendenza si faccia strada.

Noi andiamo avanti perché crediamo nell’utopia della pace e, come ha scritto Joyce Lussu:

L’utopia non è un’illusione un sogno una fantasia lanciata nell’impossibile.  L’utopia è un progetto l’invenzione di un possibile all’interno della realtà quotidiana non ancora realizzato ma che forse si realizzerà.    

DONNE IN NERO, OVVERO LA POLITICA DELLE RELAZIONI

ANNALISA COMUZZI[6], Padova 20/09/2019

 

Interrogando prima di tutto me stessa, mi sono chiesta se il valore di questa espressione non si sia un po’appannato; spesso, infatti, riteniamo le relazioni tra donne un riferimento così certo del nostro agire comune che ci dimentichiamo di ritornare ai suoi significati più profondi, trascuriamo di rinnovare questa categoria politica, di metterla alla prova del presente, di farla interagire con la nostra quotidianità di attiviste.

L’essere tornata da poco da Belgrado, l’aver partecipato la scorsa settimana, insieme a Giannina Dal Bosco e Luisa Morgantini all’incontro della Rete delle Donne in Nero dei Balcani, mi ha aiutata a mettere in ordine i pensieri, a costruire la riflessione che provo a sottoporvi.

DAL FEMMINISMO DELL’EMANCIPAZIONE AL FEMMINISMO DELLA DIFFERENZA

Credo che non si possa parlare di politica delle relazioni senza ammettere un debito di riconoscenza nei confronti di un gesto inaugurale, di uno strappo teorico e pratico compiuto agli inizi degli anni Settanta dalle donne che diedero vita al femminismo della differenza sessuale. Mi riferisco in particolare a Carla Lonzi e alle sue compagne  di Rivolta femminile che per prime sperimentarono la modalità politica  dell’autocoscienza e del  separatismo[7].

La pratica dell’autocoscienza vedeva proprio nella relazione tra donne, nel dialogo che tra loro si intrecciava, la possibilità di sottrarsi all’autorità maschile, di aprire uno spazio al comune desiderio di autonomia, di uscita da una condizione di oppressione che si scopriva essere personale e insieme collettiva. 

Attraverso la parola scambiata e liberamente assunta, a partire da sé, dalla propria singolare esistenza, dalle storie iscritte nei corpi di ciascuna, si realizzava un riconoscimento reciproco, che restituiva «senso e misura a quello che una donna faceva, pensava, voleva»[8].

Se fino a quel momento la relazione con l’uomo era percepita come ineludibile, naturale e obbligata, sia nel conflitto che attraversava i rapporti personali, sia nelle lotte fino allora ingaggiate tra i due sessi, il femminismo della differenza modificava la prospettiva e introducendo una discontinuità radicale con il passato, poneva al centro della propria proposta politica la relazionetra donne[9].

Al femminismo della rivendicazione, dell’emancipazione, che indicava un orizzonte di parità, di eguaglianza e di complementarietà con gli uomini, il nuovo femminismo mostrava alle donne la possibilità di connotare «la propria esistenza nel mondo senza conformarla a quella dell’altro sesso»[10]. Si creava per le donne l’occasione di divenire soggetto di discorso, di significarsi liberamente, fuori dal linguaggio e dal sistema simbolico con cui gli uomini le avevano nominate e rappresentate.

Il femminismo della differenza non opponeva il maschile e il femminile, non li collocava in una posizione di antitesi, dentro una dialettica che come quella del «servo-padrone»[11] prevede l’eliminazione di uno dei due soggetti, né li situava dentro un’ipotesi di adeguamento dell’uno nei confronti dell’altro; li vedeva invece muoversi su due piani distinti che sono quelli dell’alterità e della differenza, appunto

Mi pare che di questa rivoluzione di senso, capace di coinvolgere in pochi anni generazioni diverse di donne, in tanti spazi geografici e culturali, si siano avvantaggiate anche le Donne in Nero, fin dal loro primo comparire sulla scena pubblica nelle terre di Israele.

COME AVVENNE L’INCONTRO TRA IL FEMMINISMO E IL PACIFISMO?

Credo che il merito del nostro movimento sia stato fondere gli elementi fecondi che derivavano dal nuovo femminismo con la prospettiva pacifista e nonviolenta, immettendo questi principi nell’asprezza di aree di guerra dove la Rete internazionale è nata.

Porto qui due esempi che mi sembrano utili per ripensare a noi stesse.

Il primo ci conduce nella città di Gerusalemme alla fine degli anni ’80, dove alcune donne israeliane compirono un atto pubblico di disobbedienza, di sottrazione di sé all’ideologia dominante.

Anziché aderire alle richieste del proprio stato che in nome dell’unità nazionale le spingeva a schierarsi contro un nemico esterno, le donne seppero individuare all’interno della propria parte, delle proprie istituzioni, quelle scelte di violenza, di oppressione che non avrebbero potuto condividere. Partendo da sé, facendo emergere la propria soggettività, agirono una ribellione profonda, rifiutando le politiche di occupazione dei Territori palestinesi, intrecciando con le donne palestinesi, con la parte additata come nemica, i fili di una relazione umana e politica finalizzata al superamento del conflitto con gli strumenti della nonviolenza, della trattativa diplomatica, della diplomazia dal basso.

Il secondo esempio ci porta nella Serbia del 1991, alla vigilia di un ciclo di guerre che avrebbero condotto alla dissoluzione della Jugoslavia. Anche lì alcune donne, in un contesto di nazionalismo esasperato, di militarizzazione dello stato, di mobilitazione forzata, riuscirono ad affermare la propria autonomia e a denunciare pubblicamente il proprio governo, guidato da Slobodan Milosevic, per la devastazione che era appena iniziata. Le donne, rivolte ai politici e ai militari dicevano: Non parlate a nome nostro; noi parliamo per noi stesse”. Parlare in prima persona, assumere una responsabilità individuale di opposizione alla guerra, rifiutare il ruolo di vittime, sono divenuti pratica quotidiana di queste attiviste.

Attiviste che all’inizio delle operazioni militari non si sono fatte corrompere dalla martellante propaganda di regime; nel momento della massima chiusura, di arroccamento nazionalista di un’intera società, hanno scelto l’apertura. All’uniformità identitaria hanno preferito la pluralità, alla mistica dei sacri confini della patria hanno scelto il superamento delle frontiere politiche, culturali, simboliche. All’immobilismo e alla paura hanno opposto la capacità di viaggiare, di raggiungere le aree più insidiose del conflitto, di mantenere, creare, sviluppare relazioni con donne di altre nazionalità, con cui hanno avviato legami di fiducia, di sorellanza, di ascolto, di accoglimento delle singole storie di vita, di comune tensione verso un futuro senza guerre, separazioni, divisioni.

Ed è significativo che negli anni più duri degli scontri armati , proprio da Novi Sad, città dei tanti ponti sul Danubio, si realizzassero quei Convegni internazionali delle donne contro la guerra che hanno consentito di costruire una rete di Donne in Nero provenienti da tutte le regioni dei Balcani, dall’Europa, dal Medio Oriente.

COME SI E’ARRIVATI AL TRIBUNALE DELLE DONNE DI SARAJEVO?

Mi pare importante ricordare come agli inizi del 2000, nei primi mesi del dopoguerra, nel momento di una forte repressione politica attuata in Serbia dal vacillante regime di Milosevic nei confronti dei movimenti e delle forze di opposizione[12],  le donne abbiano saputo uscire dalla città “assediata”, decidendo di non farsitrovare là dove il potere voleva costringerle, scegliendo di viaggiare ancora, di ascoltare, incontrare, contagiare simbolicamente altre realtà periferiche, mettendo in piedi quei seminari itineranti che si svolgevano in cittadine e villaggi lontani dalla capitale e avevano la funzione di ampliare e consolidare una tessitura di legami politici e personali che sono stati determinanti per poter avviare, a partire dal 2010, l’esperienza del Tribunale delle Donne di Sarajevo.

Senza questa solida rete di relazioni, senza una politica della cura messa in atto nei confronti delle amicizie e dei contatti intrecciati nel tempo, non sarebbe stata possibile la realizzazione di un progetto ambizioso e faticoso, quello del confronto con la propria storia recente, della denuncia dei crimini di guerra compiuti nei Balcani, della richiesta di giustizia avanzata dalle donne per le violenze e le ingiustizie subite, della critica severa mossa nei confronti delle istituzioni giudiziarie – nazionali e internazionali – che non avevano saputo corrispondere a un bisogno profondo di legalità, di riconoscimento dei reati commessi.

Si è trattato di un percorso analogo a quello intrapreso in Colombia dalla Ruta Pacifica de las Mujeres, protagoniste tra il 2010 e 2013 di un imponente lavoro di ricerca e documentazione per istituire una Commissione verità e memoria delle donne vittime del conflitto armato che ha devastato il Paese negli ultimi cinquant’anni. Anche in questo caso, la politica delle relazioni è risultata l’elemento indispensabile per poter raggiungere e intervistare più di mille donne, di differenti età e luoghi di provenienza, che con la loro testimonianza e la rivisitazione del proprio percorso di vita hanno dato forma a una memoria collettiva e delineato una verità che a pieno titolo pretende di essere accolta e riconosciuta nella storia recente di quel luogo[13]

Mi rendo conto che le parole finora pronunciato potrebbero essere percepite come un elogio eccessivo, una celebrazione delle Donne in Nero, in particolare di quelle dei Balcani, sulle quali mi sono a lungo soffermata.  Penso però che nel contesto europeo della nostra Rete questa realtà sia, al momento, la più vivace e dinamica e dunque capace di sollecitarci in positivo nel nostro fare e pensare. Proprio a Belgrado, infatti, nel recente incontro a cui abbiamo partecipato, in cui abbiamo visto rinnovarsi un dialogo fra donne bosniache, croate, serbe, slovene, montenegrine, macedoni, turche, spagnole e italiane, proprio lì è stato posto l’interrogativo sullo stato della nostra Rete europea e internazionale.

In ogni caso, come ognuna di noi sa bene, la politica delle relazioni tra donne non configura uno spazio idilliaco, pacificato e di per sé armonioso. Contempla, invece, la differenza, la diversità di opinioni, non si appiattisce sull’unanimismo, sulla convergenza, prevede anche il conflitto che in sé è sempre vitale. A differenza della tradizione politica maschile, rifiuta però lo strumento distruttivo dell’odio; sceglie di usare la parola e la comunicazione anziché la forza e la violenza[14].

AL PENSIERO DI QUALE “MADRE” DEL FEMMINISMO LA POLITICA DELLE D.I.N. E’ ISPIRATA?

Ho sempre pensato che le modalità d’intervento delle Donne in Nero sulla scena pubblica si avvicinino molto alla concezione della politica elaborata da una grande filosofa, Hannah Arendt, una pensatrice che mi è particolarmente cara.

In Vita activa, una delle sue opere maggiori, Hannah Arendt sostiene che l’agire politico (la pratica in cui l’essere umano esprime pienamente la propria libertà e infonde senso alla sua esistenza) si rende possibile là dove più soggetti, ognuno di quali è unico e irripetibile, sono capaci di interazione e comunicazione.

Lo spazio politico non è costituito per Arendt da una patria, da una nazione, da una terra[15]. E’ uno spazio relazionale generato dalle persone che vivono insieme e realizzano un ambito autentico di azione e di discorso. E’ in questo rapporto di reciprocità che l’azione politica può esprimersi; è in questo spazio connotato dalla pluralità che si può generare l’inatteso, che si può compiere ciò che è infinitamente improbabile, spezzando ciò che è dato e sembra immutabile e sempre identico a se stesso.

Scrive Arendt: «La polis, propriamente parlando, non è la città stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme […] , indipendentemente dal luogo in cui si trovano. “Ovunque andrete voi sarete una polis”: queste parole famose non solo furono la parola d’ordine della colonizzazione greca, ma esprimevano la convinzione che l’azione e il discorso creano uno spazio tra i partecipanti che può trovare la propria collocazione pressoché in ogni tempo e in ogni luogo. E’ lo spazio dell’apparire, nel più vasto senso della parola: lo spazio dove appaio agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini [e noi potremmo aggiungere le donne] non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate, ma fanno la loro esplicita apparizione»[16].

Sono assunti, quelli di Hannah Arendt, a cui mi sento di aderire completamente, perché rimandano alla possibilità, data a ciascuna di noi, di dar luogo, grazie alla relazione con altre/i, ad una azione che può inaugurare il nuovo, può essere occasione di cambiamento.

Si dice ancora in Vita activa: «Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare»[17].

In un tempo di profonda crisi del sistema della rappresentanza, dei partiti e della sinistra in Italia, queste parole mi confortano; le percepisco come una sollecitazione a riaffermare il valore della politica delle relazioni nella nostra quotidianità di attiviste. Le avverto come uno sprone a rilanciare le possibilità d’incontro della nostra Rete nazionale, a contrastare l’abitudine che ci porta ad essere impegnate prevalentemente nella sfera cittadina, a restare troppo vincolate alla dimensione locale, esposte al rischio di veder inaridire e spegnere le nostre capacità progettuali.

CONTRIBUTO DI MIRIAM CARLINO[18], PADOVA 20/09/2019

COSA MI HA SPINTO A STUDIARE PENSIERO E PRATICHE DELLE DONNE IN NERO?

Vorrei soffermarmi sui principi e sugli insegnamenti che possono essere tratti dall’attivismo delle Donne in Nero, cercando di esporre l’attuale rilevanza politico-sociale delle relazioni ed azioni delle donne, che rimangono raramente riscontrabili nella narrazione storica contemporanea.  Questa mancanza nella trattazione storica, parziale ed talvolta astratta, dalla quale i movimenti sociali e soprattutto i movimenti delle donne sono quasi sempre esclusi, è senza dubbio il presupposto dal quale è scaturita la mia ricerca: nutrire quella curiosità mi ha portata a scoprire  una storia alternativa, che guarda alle radici lontane per far emergere i significati più profondi delle vicende contemporanee, a partire dai luoghi difficili.

Il movimento delle Donne in Nero, come si è detto, ha avuto origine in Israele, nel 1988, dalla protesta delle donne che si opponevano all’occupazione dei territori palestinesi da parte del proprio stato. Si è esteso nella necessaria affermazione dell’estraneità delle donne alla guerra, unite in un grido di opposizione internazionale – “non in nostro nome” – al militarismo, al nazionalismo e alla progressiva identificazione dell’altro/a come nemico/a, ad ogni tipologia di violenza, la cui forma di manifestazione estrema è la guerra.  L’assunzione di responsabilità della protesta in silenzio e in nero è stata condivisa da un numero crescente di attiviste, attraverso innumerevoli viaggi di conoscenza e percorsi di pace nei luoghi difficili, divenendo per contagio una rete internazionale di solidarietà. Queste relazioni tra donne hanno permesso al movimento di adottare uno sguardo internazionale all’agire quotidiano, uno sguardo capace di partire dai singoli territori per destrutturare i contesti e cogliere le specificità dei vissuti femminili, in tempi di guerra ed in tempi di pace. Donne ‘determinate e testarde’ hanno dato vita ad un processo di mobilitazione dal basso ed un approccio femminista all’ingiustizia – senza precedenti nella teoria e pratica politica – dal quale è possibile apprendere sia per i contenuti teorici sia per le azioni intraprese, che meritano di essere considerati con attenzione.

IL PENSIERO E LE PRATICHE DELLE DONNE IN NERO SONO ATTUALI ANCORA OGGI ?

Alla base dell’approccio delle Donne in Nero, l’intuizione della necessità di costruire spazi femminili di partecipazione come risposta alla crisi del sistema sociale: spazi pubblici in cui analizzare il recente passato dei e nei luoghi difficili, promuovere relazioni tra donne di diverse nazionalità, decostruire la logica del nemico imposta dai rispettivi stati e contrapporvi nuovi canali comunicativi, costruendo ponti di pace; spazi di libertà e solidarietà in cui condividere i propri vissuti e denunciare gli orrori della violenza e della guerra, spazi dove ricostruire la memoria storica ed attuare concreti percorsi di cambiamento sociale. Promuovere questi spazi e giungere a quante più donne possibili, oltre ogni confine e limite imposto – si pensi ai viaggi in Palestina e nei singoli stati dell’ex Jugoslavia, assediati dalla guerra –   per riportare in superficie tutte quelle voci oscurate ed invisibili,  rappresenta il primo elemento “di quel fare femminista che salda personale e politico, teoria ed esperienza, emozioni e pensieri”.

Fin dai primi incontri internazionali, in questi spazi di donne per le donne, emergevano i principi fondanti della politica femminista pacifista delle Donne in Nero, che sono stati alla base dell’esperienza storica del Tribunale delle donne, svoltosi nel maggio 2015 aSarajevo. Questi principi, risultato dell’assunzione di responsabilità e dell’impegno delle attiviste, sono successivamente stati rielaborati collettivamente e sintetizzati  nel cosiddetto ‘codice femminista di lavoro’: lo strumento condiviso nell’organizzazione del Tribunale delle donne di Sarajevo, che ha permesso una chiara individuazione delle pratiche da adottare con altre organizzazioni e da perseguire nel lungo processo. Questo codice è, a mio parere, un’analisi accurata degli elementi costitutivi delle pratiche consolidate nel tempo del movimento.

CHE COS’E’ IL CODICE FEMMINISTA DI LAVORO?

In primis, emerge la cura delle relazioni come pratica imprescindibile per ricercare e definire un senso comune per pensare ed agire insieme. La cura, l’ascolto e il supporto reciproco sono il presupposto per instaurare reali e continuativi rapporti di fiducia,  incoraggiare percorsi di solidarietà e promuovere un’assunzione collettiva di responsabilità. Le relazioni tra donne stimolano il pensiero critico ed educano ognuna all’analisi delle cause  dei conflitti sociali e della violenza strutturale: dalla condivisione del proprio vissuto, il partire da sé, negli incontri tra donne, si coltivano  il pensare e l’agire insieme, che divengono concretamente il motore del cambiamento contro quelle ingiustizie  emerse dallo scambio di vissuti e conoscenze: coniugando il personale con il politico si attua l’approccio del sentire insieme e formulare insieme. In questa prospettiva, si struttura il rifiuto di ogni forma di vittimismo passivo delle donne: nell’esperienza del Tribunale, attiviste e testimoni si identificano e si affermano come  soggetti attivi, a cui spetta la responsabilità di denunciare ed agire contro le ingiustizie e le violenze; soggetti responsabili di rompere il silenzio storico e  di ricostruire, ponendosi come interpreti della storia, una memoria alternativa per attuare un cambiamento sociale. Nel riconoscimento dell’unicità del proprio vissuto e dei tratti comuni ad altre esistenze, divengono  protagoniste della storia e della quotidianità.

L’intuizione metodologica di questo approccio femminista all’ingiustizia, che è emersa particolarmente nell’esperienza del Tribunale delle Donne, consta infatti nel mostrare come la testimonianza soggettiva – il vissuto di una singola donna – sia riconducibile ad un’analisi oggettiva del contesto politico, socioeconomico e culturale. Le testimonianze sono personali e politicamente rilevanti: in una dimensione di genere, raccontare il proprio vissuto di sofferenza e di dolore significa partire da sé per coniugare il personale e il politico, essere sostenute dalla solidarietà collettiva di altre donne. L’esigenza condivisa di giustizia nutre la consapevolezza che gli abusi,  le offese, la violenza perpetrata contro ogni singola donna nonché le violazioni collettive dei diritti umani  sono crimini, come tali devono essere individuati e riconosciuti.

Ogni singola esperienza vissuta è analizzata e approfondita teoricamente, condivisa quanto più possibile con il sapere accademico. Nella politica femminista pacifista delle Donne in Nero, l’approfondimento teorico è sempre stato rilevante per la strutturazione delle azioni da perseguire, si è tradotto nel coinvolgimento diretto di accademiche ed esperte internazionali, promuovendo la loro partecipazione in questa assunzione di responsabilità collettiva. Da questi legami è derivato il principio dell’uguaglianza delle esperienze, volto alla decostruzione di ogni gerarchia nella relazione, poiché nel significarsi con l’altra ogni vissuto ha eguale importanza e valore. Tale decostruzione è legata sia alle conoscenze, ossia volta a riallineare su un piano paritario il vissuto, l’impegno attivo e i contributi teorici; sia alle sofferenze, ossia finalizzata a rimuovere ogni meccanismo psicologico di classificazione del dolore, per giungere all’individuazione di un ampio insieme di violenze, tutte egualmente gravi, da denunciare pubblicamente, oltrepassando la retorica degli aggressori e degli aggrediti, la logica del vittimismo passivo che non incoraggia alcuna reazione costruttiva.  L’uguaglianza e il rispetto non sono rivolti soltanto alla persona, ma agli obblighi e alle attività intraprese: ogni azione, i singoli incontri, i seminari, le proiezioni, le mostre e gli stessi obiettivi da perseguire hanno un’uguale importanza, nella ricerca costante di un equilibrio  tra le emozioni e i principi stessi.

L’approccio femminista all’ingiustizia delle Donne in Nero non risulta mai indeterminato ed astratto, proprio perché è scaturito dalle pratiche consolidate nel tempo del movimento e dalla condivisione della loro resistenza pacifica con altre donne ed organizzazioni. Le singole azioni, le manifestazioni pubbliche, i seminari, gli incontri ed i viaggi internazionali sono stati portati avanti con lucidità, forza ed incessante determinazione, nonostante le innumerevoli difficoltà incontrate nel proporsi e schierarsi apertamente contro la retorica e le forza dominanti del nazionalismo.

PARTIRE DALLE INGIUSTIZIE PER ANALIZZARE IL PASSATO E IL PRESENTE

Durante la guerra dell’ex Jugoslavia, mentre le forze nazionaliste dividevano e rendevano improvvisamente nemici, coloro che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente, cresceva già la rete di solidarietà delle donne, riunendo anche alcune donne croate e serbe, quelle che si erano opposte dall’inizio alla guerra ed alla violenza, cercando di mantenere attive in ogni modo le comunicazioni dei gruppi femministi dei due paesi. Quelle donne, nel mirino dei loro stati, erano divenute quelle “indesiderabili”, quelle “cattive”, quelle “traditrici”, opposte alle femministe ‘patriottiche’: la loro ‘colpa’ era quella di riconoscersi, sostenersi reciprocamente ed organizzare azioni strutturate di aiuto e sostegno ad altre donne, alle profughe e ai profughi, alle vittime della violenza dei regimi. Non è differente da quanto assistiamo oggi, dalle campagne di discriminazione e criminalizzazione delle organizzazioni e dei volontari che salvano in mare migliaia di persone. Poiché dagli abusi e dalle ingiustizie consegue prima di tutto il venire meno dei valori della vita e della libertà: occorre prendere consapevolezza e riaffermare quanto sia ancora urgente elaborare processi collettivi e rilanciare una politica responsabile che sappia creare spazi pubblici e liberi, dove ascoltare e riportare in superficie tutte quelle voci oscurate e rese invisibili; denunciare le violazioni dei diritti umani, organizzarsi ed agire contro il nazionalismo e le forze sovraniste, per i quali le persone sono ancora ridotte ad una mera espressione della nazione, dove l’altro, il diverso, il migrante sono e ‘devono’ essere ritenuti obbligatoriamente nemici dello stato e del singolo, usurpatori dei sacri confini della patria e dell’identità nazionale;  è ancora più urgente opporsi alla normalizzazione della guerra e alla militarizzazione delle menti, alla crescente criminalizzazione della solidarietà; provare ad assumere l’impegno e la responsabilità di agire che le Donne in Nero praticano e trasmettono ancora oggi.

Non sono certa di aver saputo esporre puntualmente quali insegnamenti trarre dalle pratiche delle Donne in Nero, ma è possibile concludere che è ancora attuale ed urgente partire dalle ingiustizie, per analizzare il passato e il presente, pensare ed affrontare la realtà a partire dalle contraddizioni che la lacerano: per valutare, decidere e predisporre azioni per il futuro.

QUAL’E’ IL MERITO MAGGIORE CHE RICONOSCI ALLA POLITICA DELLE DONNE IN NERO?

Ringraziando le Donne in Nero per il loro impegno a favore della pace, della solidarietà e delle donne, riprendo un intervento dell’undicesimo incontro internazionale della rete, svoltosi a Marina di Massa nell’agosto 2003, che ho sempre considerato un manifesto chiaro e sintetico della loro politica:

“Donne, determinate e testarde, noi che non accettiamo che i conflitti siano agiti dalle guerre e dalla violenza, noi che varchiamo i confini e le barriere per ritrovarci insieme in un progetto che ci vede protagoniste di un processo di libertà e liberazione per ciascuna e per altri/e. Noi che per amore di un mondo e provenienti da ogni parte dei continenti ci siamo incontrate […] non come vittime ma come soggetto politico, per parlare di militarizzazione degli stati e delle menti, per analizzare gli avvenimenti della guerra e del dopoguerra, discutere del senso e dei limiti della cooperazione e della solidarietà, di come costruire insieme relazioni tra donne in luoghi di conflitto, di come superare la concezione del nemico, di come rendere le differenze ricchezza di articolazione di pensiero e di vivere sociale, di come essere radicate nella nostra identità e capaci allo stesso tempo di spostarci cambiando insieme agli altri e alle altre; di come superare le dicotomie agendo nelle contraddizioni, di come non rimuovere o negare il conflitto, ma operare perché vi sia un superamento nonviolento; di come fare argine ai fondamentalismi, quelli religiosi e quelli laici, di come non lasciarci incatenare nella logica perversa della guerra.[…] Il bisogno di fare e pensare, la lucidità e la determinazione per non farsi inglobare nel relativismo culturale e nel conformismo, il bisogno di essere persone libere ed intere, nelle diversità sociali, culturali, sessuali.[19]


[1]Elisabetta Donini,  (Torino, 1942) insegnante di Fisica alla Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, una delle fondatrici delle Donne in Nero italiane, impegnata dalla fine degli anni ’80 in percorsi di relazione con donne palestinesi e israeliane è autrice di numerosi testi e saggi. Ha svolto varie attività nel movimento delle donne e nel femminismo pacifista, dedicandosi sia a livello teorico, sia attraverso iniziative concrete, a questioni quali la politica della diversità, i rapporti attraverso i conflitti, la cura dell’ambiente, la critica dei modelli di sviluppo.

[2]Yvonne Deutsch, “Donne Israeliane contro l’occupazione e per la pace”, Inchiesta n. 91-92, gennaio-giugno  1991, p. 69. Traduzione di Emma Debenedetti

         

[4]Si veda Donne a Gerusalemme. Incontri tra italiane, palestinesi e israeliane, a cura di Giovanna Calciati et al., Rosenberg & Sellier, Torino 1989.

[5] Insegnante di Materie letterarie, anima del movimento nonviolento a Padova. Tra le fondatrici di Donne in nero, si è spesa soprattutto per la causa palestinese e la Bosnia ferita dalla guerra. Faceva parte della rete Radié Resch per lo sviluppo di Haiti. Mancata il 2/08/2021

[6] delle Donne in Nero di Udine, molto vicina alle Donne in Nero di Belgrado; curatrice con le sue compagne dei primi due libri di una collana sulla giustizia femminista,

[7] Si veda, a questo riguardo, il fondamentale contributo di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1977.

[8] Maria Luisa Boccia, Le parole e i corpi. Scritti femministi, Ediesse, Roma 2018,  pag. 75.

[9] Ibid., pag. 75.

[10] Ida Dominijanni, L’eccedenza della libertà femminile, in Ida Dominijanni (a cura di ) Motivi della libertà, Democrazia e Diritto n. 7-8, 2001,  Franco Angeli, Milano, pag. 50.

[11] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., pp. 24, 33-34, 54.

[12] Dopo la campagna di bombardamenti della NATO sulla Serbia, il Kosovo e il Montenegro, attuata nel 1999, il regime di Milosevic si accanì contro le  forze di opposizione: la sede delle Donne in Nero di Belgrado fu sottoposta a perquisizione e alcune abitazioni delle attiviste subirono l’irruzione della polizia.

[13] Si veda  Ruta Pacifica de las Mujeres, La verità delle donne. Vittime del conflitto armato colombiano, Edizione a cura della Rete italiana delle Donne in Nero, 2019.

[14] Ida Dominijanni, L’eccedenza della libertà femminile, cit.,pag. 66.

[15] Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, pag. 223.

[16] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989,  pag. 145.

[17] Ibid., pag. 182.

[18] Giovane ricercatrice che si è laureata con una tesi su “Il Tribunale delle donne della ex Jugoslavia. Prospettive e pratiche del femminismo antimilitarista contemporaneo”.

[19] Luisa Morgantini, Osiamo la pace, disarmiamo il mondo, XI Incontro internazionale della rete delle donne in nero, Marina di Massa, 28/31 agosto 2003.

Lascia un commento